Dalle origini alla Resistenza

Il Monte di Brianza nel tempo

A cura di Anselmo Brambilla

[pubblicato in http://www.montedibrianza.it/il-monte-di-brianza-nel-tempo]

Il primo accenno all’esistenza di un luogo chiamato Monte di Brianza risale al 16 agosto 1107 ed è contenuto in un documento di donazione che la nobile Contissa, vedova del milanese Azzone Grassi, fa all’abbazia di San Pietro di Cluny in iure et proprietate dell’intero territorio di Figina loca et cassine Montis Brianze. Donazione che successivamente consentirà ai monaci di costruire una chiesa dedicata a San Nicola e costituire un priorato Cluniacense.
Per quanto riguarda invece il colle del San Genesio come indicazione di località il primo documento che ne attesta l’esistenza porta la data dell’anno 960, Alcherio signore di Airuno in procinto di andare in guerra, per ingraziarsi il Signore e chiedere la sua divina protezione, lascia, in donazione alcuni fondi di sua proprietà alla chiesa Plebana di Brivio, alla chiesa dei SS. Cosma e Damiano di Airuno ed alla cappella Sancti Genexii in Monte Suma. Nessuna notizia per circa trecento anni, fino alla citazione, sull’esistenza di un edificio religioso sul colle del San Genesio: In plebe Massalia in Monte Brianze, ecclesia Sancti Genexii. Citazione riportata dallo storico milanese Goffredo da Bussero, nella sua opera Liber Notitiae Sanctorum Mediolani, dove indicava e descriveva tutte le chiese esistenti nella diocesi di Milano.
Nel 1591 Martino da Lucca, frate dell’ordine agostiniano, si stabilì a Cagliano e, si prese cura della chiesa di San Genesio erigendo anche un piccolo convento. Gli Agostiniani rimasero in loco fino al 1770 quando, Giuseppe II e l’Arcivescovo di Milano Giuseppe Pozzobonelli, decretarono la soppressione del convento con il conseguente abbandono del Colle.
Dal 1863 al 1938 Il colle venne ripopolato con un’altra congregazione religiosa, quella dei Frati Camaldolesi, i quali ricostruirono il convento e la chiesa dedicandoli però ad un altro Santo: San Giuseppe.

Monte di Brianza esenzioni e privilegi

La regione attorno al colle di Brianza, fronteggiante il territorio bergamasco al di là dell’Adda, ebbe non poca importanza nei fatti guerreschi della seconda metà de secolo XIV e nella prima del seguente. Questi paesi indicativamente erano quelli appartenenti alle quattro pievi di : Brivio, Missaglia, Oggiono e Garlate.
I paesi attorno al San Genesio, erano dominio della Signoria dei Visconti, arrivata al potere del ducato di Milano sconfiggendo la famiglia rivale dei Torriani. Questi territori facevano parte del contado della Martesana superiore erano un po’ l’avamposto del ducato nei confronti della confinante Repubblica di Venezia che tentò varie volte di occuparli e sottometterli, Alle fine di numerose guerre e scontri la Repubblica di Venezia si ritirerà oltre l’Adda che con la pace di Lodi del 1454 diventerà confine di Stato.
Le famiglie eminenti dei paesi del monte di Brianza per tradizione erano di spirito ghibellino, in contrasto con quelli del bergamasco in prevalenza guelfe. Rimasero sempre fedeli ai Visconti prima e agli Sforza poi, e perciò da questi furono privilegiati attraverso immunità ed esenzioni. Il ghibellinismo nel Monte di Brianza risaliva ai tempi di Federico Barbarossa, e del suo gran fautore Algisio abate del monastero di Civate.
Il monastero che possedeva molti beni nella Martesana superiore, e la potenza di quegli abati, provenienti dalle famiglie feudali, era tale da indurre anche altri a parteggiare per i Ghibellini. Le prime notizie delle esenzioni elargite agli abitanti dei paesi posti attorno al Monte di Brianza risalgono alla guerra del 1373-74 nella quale i fratelli Bernabò e Galeazzo Visconti, scomunicati dal pontefice Gregorio XI, e specialmente Bernabò signore di Milano dal 1354, per le sue prepotenze e crudeltà, si videro attaccati da un esercito guelfo.
All’epoca la signoria di Milano stava estendendo i suoi domini verso i territori circostanti, a danno delle signorie di altre città. Proprio per contrastare quest’espansione, i nemici dei Visconti formarono un esercito al comando del conte Amedeo di Savoia ed armato dal papa e dai signori di parte guelfa. Quell’esercito si muoveva diviso in due armate; una operante fuori dalla Lombardia, e l’altra, sotto il comando di Amedeo di Savoia, nel febbraio del 1373, passato il Ticino, si era inoltrata nel pavese, e risalendo verso l’alto milanese, si era accampato a Vimercate.
Amedeo di Savoia non disponendo di forze sufficienti per attaccare direttamente Milano, nell’aprile si spostò a Brivio, e gettò un ponte di barche difeso con bastie, onde poter facilmente comunicare col bergamasco abitato da guelfi che lo sostenevano. Vista la situazione Bernabò astutamente per difendersi e per tenersi buoni gli abitanti del Monte Brianza e degli altri paesi circostanti, il 31 marzo 1373, li rendeva esenti da ogni tassa ed onere presente e futuro.
Così con le sue milizie e con il fondamentale aiuto dei Ghibellini del Monte di Brianza affrontò il nemico con una guerriglia spietata e continua, rendendogli difficile il rifornimento dei viveri e dei foraggi, e tentando continuamente di distruggere il ponte di Brivio. Alla fine anche per la peste scoppiata nell’esercito invasore, ai primi di giugno il Savoia abbandonava definitivamente la lotta e se ne tornava a casa.
Bernabò, non era un tipo con il quale si poteva scherzare, ma era molto vendicativo, come aveva premiato chi lo aveva aiutato, pensò bene di punire quelli del territorio della Martesana che si erano, più o meno, apertamente schierati per l’invasore, o che dalle circostanze erano stati costretti, sia pure loro malgrado, a favorire il nemico, mettendoli tutti al bando e confiscando i loro beni, tra questi figurano anche alcune famiglie del Monte di Brianza.
Inoltre Bernabò per vendicare la morte del figlio Ambrogio caduto in uno scontro coi guelfi presso Caprino Bergamasco nell’agosto del 1373, alla testa delle sue milizie da Brivio penetrò nella Valle San Martino, mettendola a ferro e a fuoco, bruciando l’antico monastero di Pontida e massacrando tutti quelli che parteggiavano per i Benaglia.
Battuti o neutralizzati i nemici esterni, a Bernabò la vita nel ducato di Milano la complica il nipote, nel 1378 era morto il fratello Galeazzo, signore di Pavia, con il quale divideva il potere sul ducato. A questi succede il figlio maggiore Gian Galeazzo Visconti, chiamato conte di Virtù, uomo scaltro e ambizioso, che tra le altre cose voleva diventare unico signore dello Stato Visconteo, al momento gestito in coabitazione con lo zio.
Il giovane Gian Galeazzo, con uno stratagemma, nel maggio del 1385, riuscirà a far arrestare lo zio con i suoi due figli: Rodolfo e Ludovico, e a farli imprigionare: prima nel castello di Porta Giovia e poi in quello di Trezzo, da dove non usciranno più. Bernabò morirà avvelenato il 19 dicembre di quell’anno stesso, gli altri probabilmente furono uccisi o fatti sparire, in tal modo Gian Galeazzo Visconti diventava l’unico signore di Milano.
Per guadagnarsi la simpatia dei sudditi e far dimenticare il modo col quale era giunto al potere riconfermò, tra l’altro, non solo le esenzioni concesse, ai ghibellini del Monte di Brianza, da Bernabò dal 31 marzo 1373 in avanti, ma il 1 giugno 1385 Gian Galeazzo Visconti decise di estendere le esenzioni ad un numero ben maggiore di ghibellini della Martesana superiore.
Sempre per ingraziarsi i sudditi e cercare di apparire magnanimo il 7 giugno perdonava i guelfi martesani che lo avevano supplicato di usare loro clemenza, dicendosi innocenti dall’accusa di aver parteggiato per il conte Amedeo di Savoia. Questi erano quasi tutti del Monte di Brianza.
Dal confronto dei due documenti, quello con l’elenco delle famiglie alle quali erano state riconfermate le esenzioni e quelle degli esuli perdonati e reintegrati dei loro beni, si nota che nei paesi del Monte di Brianza vi erano in prevalenza famiglie ghibelline.
Il territorio dove vivevano queste famiglie privilegiate da Bernabò nel 1373 e da Gian Galeazzo nel 1385, costituirà ufficialmente e definitivamente con Francesco I Sforza nel 1451, l’Università del Monte di Brianza, Universitas Montis Briantie, ossia una comunità ben distinta nel contado della Martesana.
Il 3 settembre 1402 Gian Galeazzo moriva, colpito da febbri pestilenziali, quando era al culmine della sua gloria e della sua potenza, poiché si era formato con attività militari e astuzia politica un vasto dominio ed aveva acquistato, nel 1395, il titolo di duca da Venceslao di Boemia re dei Romani e di Boemia. Agli inizi del 1400 il Ducato di Milano era uno degli stati regionali più ricchi e potenti d’Italia.
Avendo l’erede Giovanni Maria Visconti solo 14 anni, lo stato venne governato per un certo tempo dalla duchessa vedova Caterina Visconti. Successivamente venne diviso tra i due figli legittimi: al primogenito Giovanni Maria la corona ducale, con una parte dello Stato, e a Filippo Maria il titolo di conte di Pavia con la restante parte, salvo le città di Crema e di Pisa che furono assegnate ad un figlio illegittimo.
La Martesana, col Monte di Brianza, rimase sotto il governo di Giovanni Maria. Il giovanissimo duca, per tenersi fedeli le famiglie della Brianza, rinnovò le concessioni fatte dai predecessori, inoltre l’11 gennaio 1403, concesse al borgo di Merate di riaprire il mercato che era rimasto sospeso da diverso tempo per le invasioni e le guerre.
Nel 1411, il duca, probabilmente per suggerimento di Facino Cane conte di Biandrate, che allora dominava il Monte di Brianza in nome del duca, e che conosceva bene la situazione militare della zona, confermò ed ampliò il 4 agosto le immunità e le esenzioni concesse dal padre ai ghibellini, la conferma venne fatta sotto il titolo di Montis brianzie partium nostrarum Martexane superioris.
Il duca scioperato e crudele [venne pugnalato da congiurati il 6 maggio 1412, e Filippo Maria, succedette al fratello diventando l’unico signore dello Stato milanese. Un dominio in completo sfacelo, dove ripresero le lotte fra guelfi e ghibellini che in particolar modo infuriarono nel milanese sotto il malgoverno di Giovanni Maria Visconti.
In Milano e nelle città del ducato, ripresero gli scontri con devastazioni nelle case ed agguati mortali nelle strade tra i membri delle famiglie delle due fazioni, per riconquistare le cariche del potere. Il Monte di Brianza non andò esente da scontri sanguinosi, omicidi, incendi, e saccheggi, nella lotta fra le famiglie guelfe e ghibelline.
Memoranda fu la battaglia di Rovagnate, avvenuta il 7 aprile del 1409, con Pandolfo Malatesta al comando di una armata guelfa che dopo avere passata l’Adda a Brivio era entrata in Brianza e avanzava verso la valle Rovagnate dove si trovava l’armata di Facino Cane che gli sbarrava il passaggio.
Il giorno di Pasqua, forse per festeggiare la resurrezione del signore, i due eserciti si menarono di santa ragione fino a notte inoltrata con notevoli perdite da entrambe le parti. Secondo i cronisti dell’epoca al termine dello scontro non ci furono ne vincitori ne vinti e, a parte i morti e feriti.
Nel giorno seguente i due comandanti si accordarono e decisero di marciare uniti su Milano per contrastare l’arrivo di una colonna di francesi comandata dal governatore di Genova, il maresciallo Boucicaut, per evitare che si verificasse quanto recitava il proverbio: tra i due litiganti il terzo gode.
Tornato un periodo di pace, il 10 luglio 1412, prestarono giuramento di fedeltà, per mezzo di procuratori, al nuovo duca Filippo Maria molti comuni sparsi nell’ambito delle pievi che circondavano il Monte di Brianza e che godevano delle esenzioni e immunità: Oggiono, Garlate, Brivio e Missaglia, nell’atto di giuramento indicate come pievi del Monte di Brianza nel contado della Martesana: omnia communia Montis briantie contrate Martesane.

Le località ghibelline rappresentate e che giurarono fedeltà al duca furono le seguenti: Olginate, Garlate, Ospitale, Villa, Capiate, Barzanò, Greghentino, Melianico, Aizurro, Veglio, Biglio (Bulli), Dozio, Consonno, Beverate, Arlate, Imbersago, Robbiate, Paderno, Verderio superiore, Verderio inferiore, Sartirana, La Cassina, Calco, Olgiate, Olchielera, Monticello (di Mondonico), Mondonico, Casirago (Campsirago), Fumagallo, Cagliano, Giovenzana, Nava, Sarizza, Tegnone (ora Ravellino), Bestetto, Piecastello, Marconaga, Figina, Vergano, Villa Vergano, Ello, Imberido, Oggiono, Castello de Perachi (frazione sopra Oggiono), Annone, Civate, Dolzago, Cogoredo, Brianzola, Cologna, Beverino, Prestabio, Zerbina, Hòe, Rovagnate, Tremonte, Bosco, Cascinago, Sala (di Rovagnate), Crescenzago, Cereda, Galbussera (Valle Bissera), Crippa, Viganò, Monticello (di Casatenovo), Casirago (di Monticello), Casate vecchio, Missaiola, Contra, Tignoso, Missaglia, Cassina Barriani, Cassina d’Albareda (da non confondersi con Albareda di Rovagnate), Cernusco Lombardone, Cremella.
Nel 1426 Filippo Maria entrò in guerra con Venezia, e quindi prese a largheggiare con i favori ai ghibellini della Martesana superiore per averli sempre fedeli sostenitori di fronte al nemico confinante, specialmente con quelli residenti nei paesi del Monte di Brianza.
Nel 1428 fu conclusa la pace con Venezia (una delle tante) con la quale l’Adda diventava ufficialmente il confine tra il Ducato e lo Stato Veneto. Il duca rinnovava il 20 febbraio 1428 ai ghibellini martesani le immunità ed esenzioni concesse dal padre e dal fratello per la loro devozione e fedeltà, e nel maggio del 1440 allargava ancora il numero degli esenti.

In quest’ultimo decreto, nel quale si vede nominata per la prima volta l’Università del Monte di Brianza, Universitas Montis Briantie, come comunità distinta fra le terre del Ducato di Milano, le pievi, i comuni, e gli uomini in essi abitanti, venivano in perpetuo resi immuni ed esenti da qualsiasi onere. In cambio di queste concessioni gli esenti dovevano corrispondere una data somma in denaro specificata in un istrumento a parte.

Inoltre in cambio delle esenzioni, il duca pretendeva dai ghibellini brianzoli efficaci e sostanziosi aiuti a salvaguardia del territorio. Ad esempio, il 19 giugno 1440, chiese alle fedeli comunità della Martesana e del Monte di Brianza di raccogliere il maggior numero possibile di armati da mettere a disposizione di Emanuele de Sicchis, per difendere lo Stato attaccato dai guelfi dalle parti di Gera d’Adda.

Il 19 giugno 1447, malgrado le difese approntate dai milanesi sul corso del fiume, l’esercito veneziano, sotto il comando del capitano di ventura Atendolo, da Brivio penetrò nella Brianza e vi sconfisse le truppe del duca forti di ottomila uomini, i vincitori misero a ferro e a fuoco il Monte di Brianza e ne asportarono un ingente bottino. Ruberie e vendette sugli abitanti furono operate da quelli che erano stai banditi dal territorio in quanto ritenuti guelfi, e che seguivano l’esercito veneziano. È presumibile che tra i paesi messi a ferro e a fuoco vi fossero anche alcuni paesi del Monte di Brianza, anche se non disponiamo di adeguata documentazione in proposito. In seguito a questi fatti molti abitanti della nostre zone, ridotti in miseria, si rifugiarono in Milano.

Alla morte di Filippo Maria, avvenuta il 13 agosto 1447, i notabili milanesi più influenti sollevarono il popolo contro la corte ducale, dalla quale erano usciti dei personaggi che avevano governato da tiranni, e proclamarono la Repubblica Ambrosiana. Gli abitanti del Monte di Brianza che, dopo il saccheggio dell’esercito veneziano, erano emigrati in città in cerca di miglior condizioni di vita, non erano ben visti dai nuovi governanti, perché la loro fedeltà al defunto duca li rendeva sospetti. Il18 agosto 1448 decisero di obbligarli a ritornare ai loro paesi entro due giorni, altrimenti sarebbero stati dichiarati ribelli. L’affronto ricevuto con l’espulsione, fece si che i Brianzoli si dichiarassero apertamente per Francesco Sforza marito di Bianca Maria, unica figlia di Filippo Maria, che ambiva in quanto genero del defunto duca, alla successione del Ducato di Milano, e quindi contro la Repubblica Ambrosiana. Nel dicembre del 1449 e nel gennaio dell’anno seguente, Francesco Sforza mosse con abile strategia il suo esercito in Brianza per la conquista del Ducato scontrandosi contemporaneamente con due eserciti avversari: quello di Venezia e quello milanese della Repubblica Ambrosiana. Non sarebbe forse riuscito nel suo intento, se in alcuni scontri sul territorio non fosse stato aiutato in tutti i modi dai fedeli abitanti del Monte di Brianza. La situazione militare dello Sforza, che aveva il suo quartiere generale a Calco, si era fatta molta pericolosa trovandosi quasi chiuso in una sacca: ad est i Veneziani, i quali, passata l’Adda a Brivio o ad Olginate come scrive il Cagnola, si erano attestati sul monte S. Genesio; a sud l’esercito milanese raccolto in Monza al comando del Piccinino; a nord-ovest Bartolomeo Colleoni che attraversato il lago di Lecco, scendeva nella Vallassina per invadere la Brianza. Il conte seppe manovrare abilmente difendendosi dai nemici in fasi successive, prima sconfisse presso Casate Vecchio l’armata della Repubblica Ambrosiana comandata dal Piccinino che avanzava verso Oggiono, la valle di Rovagnate e il centro del Monte di Brianza, respingendolo verso Monza. Poi espugnò la rocca di Airuno presidiata dai Veneziani, ai quali fece abbandonare il San Genesio rimandandoli al di là dell’Adda; infine lo Sforza riuscì anche a fermare l’invasione dell’armata veneta del Colleoni. Successivamente fu lui a manovrare all’attacco occupando Monza, e già padrone del basso milanese, continuò a stringere d’assedio in modo sempre più da vicino la città di Milano, con lo scopo specifico di prenderla per fame, visto che gli aveva tagliato tutte le vie di entrata delle vettovaglie. Infatti nella città di Milano la situazione si era fatta tragica, la mancanza di viveri aveva costretto i cittadini a cibarsi di gatti e topi, erba e radici. Quel poco che, grazie ai contrabbandieri, riusciva a penetrare in Milano serviva ai notabili e a chi aveva mezzi per acquistarlo a caro prezzo. Il popolo e i meno abbienti stanchi per la fame e le sofferenze, fomentati ad arte dai simpatizzanti dello Sforza, cominciarono a manifestare contro la Repubblica Ambrosiana, chiedendo a gran voce la fine della guerra anche con la resa al conte. Nel pomeriggio del 26 febbraio 1450 Francesco Sforza entrava trionfalmente in Milano e ne prendeva possesso, portando agli stremati milanesi vettovaglie e alimenti vari. Entrato ufficialmente in carica lo Sforza penso bene, anche per tenerseli sempre più fedeli, di ringraziare e premiare i Brianzoli per il loro aiuto. Il 22 dicembre 1451, fece un elogio al valore dei combattenti ed allo spirito di sacrificio col quale seppero sopportare gravissimi danni, incendi, pericoli, prigionie, aliasque infinitas iacturas e – cosa molto importante e tangibile – confermò aumentandole, nonostante le sue impellenti necessità di denaro, le immunità ed esenzioni concesse dal suocero nel 1440. A compensazione di queste esenzioni l’Università briantea doveva consegnare alla camera o erario ducale 2. 000 fiorini per il 1450, e negli anni seguenti 2400, in due rate, una alla festa di San Martino e l’altra a Natale. Di fatto gli abitanti del Monte di Brianza dovevano pagare una quota stabilita una specie di una tantum, di gran lunga inferiore a quella che avrebbero dovuto versare senza le esenzioni concesse dai signori di Milano. Ma a differenza dei Visconti che concessero solo esenzioni fiscali, lo Sforza per dimostrare sempre meglio la sua benevolenza li favorì ancora di più concedendo loro la possibilità di avere in un paese [della zona un vicario] per amministrare la giustizia civile fino ad un certo limite. Pur continuando a dipendere dal capitano del contado della Martesana nelle cause criminali, ed anche in quelle civili oltre le 20 lire terzole. Il Vicariato aveva giurisdizione sulle pievi di: Garlate, Oggiono, Brivio e Missaglia, e quindi comprendeva tutti i paesi del Monte di Brianza. I privilegi di Francesco Sforza segnarono il massimo delle benevolenze viscontee sforzesche ai brianzoli e, divennero la loro Magna Charta alla quale naturalmente tennero molto anche nei tempi successivi. Con la pace di Lodi, del 1454 si stabiliva definitivamente il confine con la Repubblica di Venezia, tutto il fiume Adda rimaneva del Ducato di Milano, quindi per tenere la gente di Brianza sempre fedele e a guardia del confine tanto conteso, riconobbe al territorio la condizione di entità territoriale autonoma col nome di Universitas Montis Briantie. Nel 1466 con la morte di Francesco Sforza incominciarono i problemi. Il duca di Milano, tra gli altri, aveva due figli maschi legittimi, Galeazzo Maria, il maggiore a cui trasmise il titolo e Ludovico Maria, detto il Moro che per il momento rimase in secondo piano. Galeazzo Maria, diventato duca non ne voleva sapere di riconfermare i privilegi concessi ai brianzoli dal padre. Questi allora ricorsero alla duchessa madre Bianca Maria la quale aveva anche di recente potuto apprezzare la loro fedeltà, infatti l’anno prima, temendosi gravi complicazioni per il Ducato, i Brianzoli si erano dichiarati pronti “ad esponere oltre le loro persone ogne sue facultate”, e di prendere le armi al minimo cenno. (La duchessa madre ne prese a cuore la cosa e si attivò scrivendo una lettera al figlio in loro favore. Il duca non voleva sentire ragioni, sordo anche all’appello della madre, così Galeazzo Maria Sforza non riconfermò le esenzioni agli abitanti del Monte di Brianza, anzi addirittura pensò di imporre l’aumento della tassa del sale. Lamentele e petizioni dei brianzoli si susseguirono incessantemente con minacce di emigrare in massa verso altri lidi, il duca si decise finalmente, sia pure a malincuore, a riconfermare i privilegi il 29 marzo 1476. Ma il 26 dicembre di quell’anno, mentre stava per entrare nella chiesa di Santo Stefano in Milano cadeva pugnalato da un gruppo di congiurati. Il 4 marzo 1478 le esenzioni vennero riconfermate dalla duchessa Bona di Savoia, che aveva assunto la reggenza del ducato, coadiuvata dal fido segretario del marito, Cicco Simonetta, in nome del figlio di otto anni Gian Galeazzo Sforza. Successivamente, a partire dal 1480, la reggenza venne assunta dallo zio Ludovico il Moro, riuscito a farsi nominare tutore del nipote. Morto il giovane Gian Galeazzo nel 1494, il Moro, divenuto duca anche di diritto, si diede ad una politica avventurosa, che alla fine portò al travolgimento del Ducato, con lo stesso Lodovico sconfitto e imprigionato nella fortezza di Loches dai francesi di re Luigi XII.

In Lombardia iniziava l’epoca della dominazione straniera, con il passaggio dei vari eserciti. francesi, spagnoli, tedeschi ecc. i sudditi del ducato furono oppressi dagli alloggiamenti militari e da continue richieste di denaro. Per tutto questo calamitoso periodo nulla esiste riguardo ai privilegi dei brianzoli. Si sa che nel 1509, sotto la dominazione del re di Francia, l’Università briantina pagava ancora in base alle esenzioni viscontee e sforzesche. Nel 1514, tornato sul trono per breve tempo il duca Massimiliano Sforza, forse in funzione delle esenzioni, sembra avesse pensato ad un nuovo estimo del Monte di Brianza. Copia autentica dei suoi antichi privilegi presentò l’Università briantina nel 1520 e nel 1525 al duca di Milano, allo scopo di essere esentati da nuove imposte e tasse. I francesi vennero cacciati ad opera degli spagnoli dopo la battaglia di Pavia. L’ultimo duca di Milano Francesco II Sforza principe buono e saggio, il 7 febbraio 1523 ordinava che in modo perfezionato si rifacesse l’estimo del Monte di Brianza fatto compilare dal nonno. Con la morte di Francesco II Sforza senza eredi nel 1535, il ducato di Milano finì la sua storia e passò in pieno dominio del re di Spagna. Con le Nuove Costituzioni emanate il 27 agosto 1541 dall’imperatore Carlo V si eliminarono o perlomeno svuotarono di ogni significato i diritti e i privilegi degli abitanti del Monte di Brianza. Anche se verbalmente de verbo ad verbum l’Università del Monte di Brianza aveva ottenuto il 19 settembre dall’imperatore la riconferma dei suoi privilegi.

Questi privilegi svuotati dagli spagnoli e ignorati dagli austriaci,il cui imperatore Giuseppe II nel giugno 1784 si degnava di confermare ai brianzoli il privilegio dell’imbottato e dei dazi vecchi, rimasto assorbito nel dazio nuovo, verranno definitivamente cancellati dalla dominazione dei francesi dopo la Rivoluzione.

 

Le condizioni di vita delle popolazioni

I fatti storici fin qui narrati si riferiscono, ovviamente condizioni di vita delle antiche famiglie nobili, borghesi o comunque di alto lignaggio, per il popolo era tutta un’altra sinfonia, gli onori ai nobili, gli oneri al popolo. Durante le continue guerre per la conquista del territorio del ducato prima e dei vari re stranieri (Francesi, Spagnoli, Austriaci e altri) che lo rivendicavano poi, la Lombardia e la Brianza, compreso il Monte di Brianza, subirono un andirivieni di eserciti composti da soldataglie mercenarie, indisciplinate e feroci.
Francesi, svizzeri, spagnoli, tedeschi, ecc passarono e ripassarono sul territorio, con grande gioia dei miseri abitanti dei paesi, i quali dovevano alloggiarli e mantenerli, ricevendone in cambio, sopraffazioni, soprusi e violenze. Il peso della presenza delle truppe straniere in guerra, in accampamento o di passaggio, ricadeva sulle comunità locali. Le requisizioni di foraggio per i cavalli e dei mezzi di trasporto, le ruberie di animali da cortile e da stalla, finivano per sconvolgere l’economia del territorio.
La conseguenza più tragica era la fame, specialmente negli anni in cui, allo scarso raccolto agricolo, si combinavano gli accresciuti bisogni e le distruzioni sistematiche operate dagli eserciti. Durante i brevi periodi di pace, gli organismi dello stato, specialmente durante il periodo della dominazione spagnola,emanavano leggi complicate e contraddittorie, grida, ordini, che pochi conoscevano e quasi nessuno rispettava, in tal modo fiorivano e prosperavano l’ingiustizia e la corruzione divenuta pratica corrente di vita.
La vita sociale presentava ingiustizie impunite, prepotenze di signorotti, vendette private, con le categorie più elevate che vivevano ostentando un lusso scandaloso, a fronte di grandi masse di contadini che, quando non morivano di fame, vivevano stentatamente.
Sotto il governo spagnolo, durato circa 200 anni, la Brianza soffrì una forte decadenza civile, morale, culturale ed economica, anche per colpa delle decimazioni dovute alle frequenti pestilenze che ciclicamente colpivano il territorio, e che diminuivano le risorse umane disponibili a svolgere le normali attività lavorative. In tal modo decaddero le produzioni manifatturiere, artigianali e commerciali, e l’economia tornò ad essere basata quasi esclusivamente sui prodotti dell’agricoltura, che viste le condizioni delle popolazioni in alcuni momenti scarseggiando erano motivo di sommosse e rivolte.
Il governo spagnolo considerava il ducato di Milano sotto la sua tutela, e quindi il territorio doveva pagare le spese di mantenimento delle loro prestazioni. Poiché la quantità di tasse imposte a fronte di una debole economia non dava un gettito sufficiente a coprire le spese per il mantenimento dei loro apparati amministrativi e militari, decisero di attuare una riforma fiscale per incamerare soldi rapidamente. Misero all’asta ampie porzioni di territorio, con le famiglie che vi abitavano,fuochi garantendo agli acquirenti un titolo nobiliare; in questo modo ottennero il duplice obiettivo di incassare denaro e di controllare meglio il territorio dividendolo in tanti feudi.
I signori che si erano accaparrati il feudo, anticipando i soldi allo stato, erano liberi di imporre regole e tributi, di esercitare il potere con oppressione ed arroganza, disponendo di uomini armati a loro servizio e concedendosi i fasti di una piccola corte con cui amministrare il feudo, sfruttando brutalmente i loro sottoposti, per lo più contadini asserviti alla terra quasi in stato di schiavitù. Numerose comunità della Brianza vennero messe all’asta e quindi a disposizione di finanzieri e mercanti arricchiti che vi trovarono redditizie forme d’investimento e il mezzo per ottenere un titolo nobiliare. Molti paesi delle quattro pievi finirono in mano a facoltosi personaggi che li comprarono”infeudarono” dalla corona spagnola, e ne diventarono di fatto e diritto, padroni e titolari di patenti di nobiltà … con licenza di sfruttare, umiliare o far morire di fame i propri”sudditi”.

Un fatto curioso significativo

Nel 1635, lo stato di Milano venne invaso da forze franco-piemontesi, da nord il duca di Rohan scese lungo la Valsassina e la sponda orientale del Lario con l’intenzione di arrivare a Lecco e poi dilagare in Brianza. Al suono del campanone della Brianza (il feudatario di Missaglia Paolo Sormani, coadiuvato dal marchese Giussani di Mondonico, e dal Delfinoni feudatario di Rovagnate, chiamò a raccolta i Brianzoli. Ne raccolse più di 4. 000 e li portò a Lecco pronti a fronteggiare l’armata francese del duca di Rohan. I cronisti dell’epoca riferiscono che appena i Francesi videro lo schieramento, ordinato e disciplinato, dei Brianzoli fecero dietro front e ritornano da dove erano venuti, non senza prima avere saccheggiato, violentato e bruciato i paesi dai quali transitarono. Come probabilmente era nelle previsioni del Sormani, il re di Spagna lo premiò con la carica di maestro di campo. Cosa abbiano avuto in cambio il Giussani e il Delfinoni non lo so, ma di sicuro chi non ha avuto niente sono stati i 4. 000 “ordinati e disciplinati” contadini brianzoli.

 

Gli Austriaci

Con la pace di Utrecht, 1713, che poneva fine alla guerra di successione spagnola, la Lombardia fu occupata dall’Austria e divenne Lombardia Austriaca. La pace di Aquisgrana del 1748 confermò tale assegnazione; seguì un periodo di circa cinquanta anni di tranquillità politica che favorì il risveglio della cultura e della scienza.

Gli Austriaci pensarono anche ad una riforma del fisco, vista la situazione non molto brillante delle casse dello stato depauperate dalle continue guerre. La riforma del fisco era resa necessaria anche dal fatto che la nobiltà disponeva di ingenti patrimoni in terreni e palazzi, di cui non si conoscevano il valore e le rese, dati necessari per imporre un tributo in proporzione. La maggior parte delle proprietà era in mano a poche famiglie o ad enti religiosi, abituati a vivere di rendita grazie ai privilegi, alle esenzioni fiscali e all’intenso sfruttamento a cui assoggettavano i contadini che lavoravano per loro. Inoltre, poiché le rendite erano più che sufficienti per vivere agiatamente, e degli altri nulla importava, non erano neanche invogliati a cercare di far rendere di più le proprietà, mantenendo così un’economia conservatrice e senza prospettive di ulteriore sviluppo.
Per mettere ordine nella situazione patrimoniale dello stato, fu istituita la Real Giunta del Censimento ed Estimo Generale dello Stato di Milano, con l’incarico di eseguire una misura precisa delle proprietà, e nel 1726 venne pubblicato il Catastopoi detto Teresiano. Ogni Comune, allora riconosciuto, fu dimensionato con terreni e case ripartiti in mappa con misure e codificazione per tipo di coltura: “arativo, arativo vitato, arativo moronato, pascolo, ronco, selva, castagneto”, da cui la stima delle rendite e dei patrimoni.
La risposta alle riforme fu lenta, pochi proprietari cercarono di migliorare la produttività dei fondi e le condizioni di vita della gente. Con il governo di Maria Teresa d’Austria, imperatrice dal 1740 al 1780, e del figlio Giuseppe II 1780-1790, verrà compiuta la riorganizzazione con l’ammodernamento politico-amministrativo dello stato, anche in senso accentratore e contrario a forme d’autonomia.
Seguendo le nuove idee dell’illuminismo, parte della nobiltà e la ricca borghesia collaborarono con i governanti nelle riforme economico-sociali: riduzione del latifondo, abolizione della servitù della gleba, incremento dell’agricoltura e dell’industria della seta, libertà di commercio con unificazione dei dazi, abolizione del diritto d’asilo, abolizione dell’inquisizione e della censura ecclesiastica, controllo statale degli studi contro il monopolio culturale dei Gesuiti.
Maria Teresa riorganizzò le amministrazioni locali del territorio della Lombardia con la costituzione di una giunta del censo, con il compito di registrare (censire) tutte le proprietà al fine di assoggettarle alla relativa tassazione. Con grande intelligenza l’Imperatrice diede una serie di orientamenti da seguire nella riforma delle amministrazioni locali, preliminare all’esecuzione del sistema censuario.
La presidenza della giunta del censimento fu affidata a Pompeo Neri nel 1749, questi rapidamente si attivò chiamando, nel 1750, a Milano tutti i cancellieri delle comunità dell’ex Ducato di Milano, per valutarne le capacita ad operare. I cancellieri erano solitamente nobili o borghesi, che sovraintendevano ad una determinata comunità, nel caso del nuovo estimo che si andava ad organizzare dovevano certificare la situazione del loro territorio attraverso la risposta ad una serie di quesiti.

Quasi due terzi non risiedevano in loco, poiché venivano eletti”a piacere” dai principali estimati, i quali gratificavano con il titolo di cancelliere, e con la retribuzione che vi era annessa,” questi loro ragionati, o agenti, o altri serventi e stipendiati della loro casa”, lasciandoli risiedere in Milano o nelle altre città. Questa categoria venne dal Neri scartata per insufficiente indipendenza. Il presidente della giunta, scelti i più abili e onesti cancellieri, cominciò a delegare loro sistematicamente tutte le operazioni relative al censo, non solo nella comunità a cui erano originariamente addetti, ma anche nei rispettivi circondari, in modo che ve ne fosse all’incirca uno per ciascuna pieve. Venne così istituita la figura del cancelliere delegato dalla real giunta, denominato più frequentemente cancelliere del censo che, introdotto in modo informale e occasionale, senza fissa remunerazione, divenne in seguito uno dei cardini della riforma amministrativa teresiana. La sua introduzione suscitò inevitabilmente malumori e proteste generali soprattutto da parte di chi era abituato a privilegi ed esenzioni. Ogni comunità veniva gravata di un certo peso fiscale, poi i propri cancellieri”di piena loro confidenza da esse deputati alla custodia de’ catastri e all’effetto delle intestazioni”, ripartivano il peso fiscale fra i vari proprietari terrieri in rapporto di quanto da loro posseduto. Alle rimostranze dei latifondisti, borghesi o nobili che fossero, il Neri rispose ottenendo, nel luglio 1753, la promulgazione di un editto con cui si ordinava a tutte le comunità dello stato di non riconoscere altro cancelliere se non quello nominato dalla giunta, con esclusione di quelli eletti dalle Comunità locali. Tuttavia, i reclami e le proteste continuarono sino a quando, il 3 marzo 1755, Maria Teresa respinse definitivamente gli argomenti sostenuti dai”ribelli” e ufficializzò con la”riforma del governo e amministrazione delle Comunità dello stato di Milano” l’istituzione del cancelliere del censo. Nominato per la prima volta dalla giunta del censimento e in seguito dall’assemblea dei deputati dell’estimo delle comunità che componevano la delegazione, il cancelliere del censo doveva essere un laureato: dottore, notaio collegiato, ingegnere collegiato o pubblico agrimensore. Non poteva assolutamente essere affittuario o agente di nessun possessore sottoposto al suo distretto e veniva remunerato direttamente dalle comunità a lui sottoposte, proporzionalmente a quanto prima le medesime pagavano il cancelliere comunale, cioè quello eletto dalle comunità stesse. Solo con l’editto del 26 settembre del 1786 i salari dei cancellieri, fino a quel momento a carico delle singole comunità, vennero aumentati e trasferiti a carico delle casse provinciali. Solitamente presente in ogni pieve, come rappresentante del potere centrale e come esecutore degli ordini del tribunale censuario, il cancelliere delegato era investito di numerosi compiti: a lui spettava presiedere e sciogliere i convocati, custodire le mappe e i registri catastali di ogni Comunità, ricevere e trasmettere al potere centrale le eventuali denunce prodotte dalle Comunità a lui sottoposte, controllare la regolarità delle elezioni dei deputati e dei bilanci annuali, segnalare al potere centrale gli eventuali abusi, provvedere all’amministrazione delle Comunità che, data la loro esigua dimensione, non erano dotate di convocato e deputazione.

Il convocato e la deputazione comunale erano l’organismo amministrativo delle Comunità del tempo, almeno di quelle di una certa dimensione, e potevano farne parte i cittadini possidenti, i cosiddetti estimati. Il lavoro dei cancellieri del censo per la riorganizzazione amministrativa della Lombardia austriaca elaborata dalla real giunta del censimento, presieduta come già detto da Pompeo Neri, durò circa cinque anni e si concretizzò compiutamente nel 1757, quando con l’editto di Maria Teresa del 10 giugno 1757 fu pubblicato il nuovo compartimento territoriale dello stato di Milano.

Il territorio dell’ex Ducato di Milano comprendeva 1. 462 Comunità, fra loro anche quelle delle quattro pievi che anticamente avevano fatto parte della comunità del Monte di Brianza.

 

I Francesi

Nel 1789 scoppiava la Rivoluzione Francese, che cambiava la storia del mondo e che influiva in modo determinante anche sulla vita in della Brianza, per gli sconvolgimenti ideali, culturali e anche di ordinamento istituzionale, che modificavano sostanzialmente l’ordine delle cose e i riferimenti rimasti più o meno fermi per secoli. L’abolizione dei privilegi feudali, compreso il pagamento delle decime alla chiesa, l’affermazione dei diritti alla libertà, all’uguaglianza, alla fraternità come valori universali fra gli uomini, erano i cardini delle conquiste rivoluzionarie, portati dalle armate francesi, anche nella diffidente Brianza vennero accolte con sufficiente entusiasmo. A Napoleone Bonaparte era stato affidato nel 1796 il compito di intervenire in Italia, su un fronte considerato di secondaria importanza nella guerra tra la Francia e le potenze straniere. L’Armata d’Italia era composta di soli 38. 000 uomini, male equipaggiati e poco addestrati. Ma il giovane e ambizioso generale in poco tempo seppe riorganizzare e galvanizzare le sue truppe e con rapide azioni militari riuscì a battere Piemontesi e Austriaci giungendo alla conquista dell’Italia settentrionale. Dagli “italiani antiaustriaci” Napoleone era visto come il salvatore delle autonomie repubblicane, anche se imponeva tasse e requisiva le opere d’arte,confiscava ricchezze come giusta ricompensa per i sacrifici sostenuti dall’armata rivoluzionaria. L’ingresso dell’esercito napoleonico in Italia e le vittorie sui Piemontesi e sugli Austriaci favorirono la nascita di alcune “repubbliche sorelle” che s’ispiravano agli ideali e alle conquiste della rivoluzione francese. Nel dicembre del 1796 le popolazioni di Reggio, Modena, Ferrara e Bologna proclamarono la Repubblica Cispadana, che per prima adottò come emblema il tricolore bianco, rosso e verde. La Cispadana, però, durò poco, perché nel luglio del 1797 fu sciolta e aggregata assieme alla Romagna e ad alcuni territori veneti e toscani nella Repubblica Cisalpina, sorta in Lombardia, con capitale Milano. Le repubbliche italiane ebbero una vita molto breve perché furono tutte abbattute, meno la Cisalpina, nel 1799, tuttavia riuscirono a darsi delle costituzioni simili a quella francese e presero importanti provvedimenti economici e civili: l’abolizione dei privilegi fiscali, la riforma del sistema giudiziario con l’introduzione dei codici napoleonici e la confisca e la vendita delle proprietà degli enti ecclesiastici. La Repubblica Cisalpina avviò una serie di riforme civili e di ripartizione territoriale ispirate a quelle applicate in Francia. Alla nobiltà dominante si sostituì la borghesia; occorreva essere titolari di un’attività economica e pagare le tasse per poter eleggere gli amministratori e prendere parte alle decisioni, cose importanti ma che non coinvolgevano la gente comune, per la quale non cambiava nulla. Si svilupparono le attività manifatturiere, si aprirono scuole pubbliche, migliorò l’assistenza sociale, conquiste civili derivanti dal principio di eguaglianza dei cittadini nello stato, stabilito dalla Rivoluzione Francese, tuttavia non migliorarono le condizioni di vita delle classi meno abbienti.
La medievale”Comunità del Monte di Brianza” perse definitivamente i suoi caratteri distintivi con la riorganizzazione del territorio. Furono soppresse le Pievi durate oltre un millennio, e istituiti i Dipartimenti, nel nostro territorio quello della Montagna poi detto del Lario; i Dipartimenti erano a loro volta suddivisi in Distretti.

La Repubblica Cisalpina, anche se basata sugli ideali di libertà e fraternità, di fatto non riscontrò sempre il favore popolare, ad esempio, quando, per la difesa della patria Comune, venne deliberata la leva militare obbligatoria, osteggiata dalle popolazioni; inoltre, i Francesi andavano spogliando chiese e Comunità, e imponendo numerosi alloggiamenti per i militari.
La leva obbligatoria era osteggiata specialmente dalla massa dei contadini che la vedevano come un’ingiustizia, poiché, di fatto, sottraeva al lavoro dei campi i giovani, molto utili nel mantenimento delle famiglie allargate. Molta insofferenza era causata dai soprusi dei soldati dei vari presidi, dalle offese al sentimento religioso della gente di Brianza, per la soppressione di diversi conventi allo scopo di impossessarsi e venderne i beni, per far fronte alle ingenti spese per le continue guerre.

Approfittando del ritorno di Napoleone in Francia, un esercito austro-russo era avanzato nella pianura Padana, mettendo in difficoltà la Repubblica Cisalpina. La minaccia fu respinta da Napoleone, tornato rapidamente in Italia, il quale nel 1800 sconfisse gli Austriaci a Marengo e nel 1802 trasformò la Repubblica Cisalpina nella Repubblica Italiana. Questa Repubblica sarà trasformata nel 1805, con i territori della Cisalpina e della Repubblica di Venezia, nel Regno d’Italia con a capo lo stesso Napoleone che aveva nominato come viceré suo figlio adottivo Eugenio Beauharnais.

Nota curiosa

Napoleone nel 1804 fece promulgare il nuovo Codice Civile dove si riconosceva l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, i diritti civili di stampa, di coscienza, di lavoro e il diritto alla proprietà. Tuttavia, accanto a questi principi fondamentali, nel Codice erano presenti anche aspetti negativi, legati al carattere autoritario e borghese del regime napoleonico, quali il divieto di organizzazione sindacale da parte dei lavoratori e il principio di autorità del marito sulla moglie all’interno della famiglia.

 

Il ritorno degli Austriaci

Con la definitiva sconfitta di Napoleone a Waterloo, nel 1815, l’Austria riprese possesso della Lombardia. Dopo il Congresso di Vienna del 1815, la regione entrerà a far parte del Regno Lombardo-Veneto, compreso nei domini dell’imperatore d’Austria e vi rimarrà fino al 1859 quando, con la II Guerra d’Indipendenza, entrerà a far parte del Regno d’Italia… Ma questa è un’altra storia.

 


Seconda guerra mondiale e Resistenza

Rastrellamento e primi movimenti di sbandati sul San Genesio

Un nutrito gruppo formato da soldati Italiani sbandati ed ex prigionieri di guerra per un totale di varie decine di persone, aveva trovato rifugio, nei giorni successivi all’otto settembre, sulle colline del San Genesio, nell’attesa gli Italiani di tornare alle loro case o alla lotta, gli stranieri di andare verso la Svizzera. Il giorno 30 settembre 1943 circa 350 S.S. tedesche spalleggiate dai fascisti iniziarono il rastrellamento della montagna alla ricerca di sbandati. L’azione durò due giorni, alla fine dei quali si contarono tre morti, due feriti e una trentina di partigiani prigionieri. Dei gruppi che si erano ritrovati organizzati su queste alture, il grosso riuscì a fuggire e a riorganizzarsi da altre parti.
Intanto nel ’43 l’attivista comunista monzese Gianni Citterio insieme ad un altro dirigente dell’antifascismo monzese e brianzolo, Amedeo Ferrari, fondatore del PCI nella sua città, raggiunse la località di Prà Pelaa sopra Airuno per organizzare il trasferimento in diversi luoghi di un discreto numero di russi e jugoslavi disertori della Todt, che erano stati inviati in quel “rifugio” dagli amici clandestini di Monza.

Fatti di Giovenzana – 11 Ottobre 1943

Dal Cronicon della parrocchia di San Donnino martire in Giovenzana, comune di Colle Brianza, veniamo a conoscenza che il parroco don Riccardo Corti aveva dato rifugio, con l’aiuto della popolazione locale, a sette prigionieri alleati che erano fuggiti da un campo di raccolta nelle vicinanze di Bergamo e attendevano il momento opportuno per raggiungere la Svizzera.
Il parroco procurò loro un posto dove poter dormire,cinque in una casa rustica del paese, altri due in una baita in località Pessina poco distante da Giovenzana. La proprietà di questi due stabili era del beneficio parrocchiale, perciò l’amministratore era il parroco. Per procurare loro il cibo invitò la popolazione del luogo ad esercitare la prima opera di misericordia: “dar da mangiare agli affamati”. Gesto nobile, coraggioso e meritorio quello che fu messo in atto dal parroco e dagli abitanti di Giovenzana, se si pensa che, oltre al rischio di rappresaglie, per la cattura dei prigionieri di guerra alleati, i tedeschi promettevano un premio di ben 1800 lire per ognuno di essi, come si evince dal seguente documento della Prefettura.
“Ai Sigg. Podestà dei comuni della Provincia di Como.
E’ a conoscenza del comando militare Germanico che dal campo di concentramento di Grumello al piano sono fuggiti circa 2500 prigionieri di guerra, che presumibilmente si trovano tuttora in parte anche nella Provincia di Como e che vengono sostentati ed aiutati dalla popolazione.
Le SS. LL. portino subito a conoscenza della popolazione che ogni cittadino ha l’obbligo di trattenere a disposizione dell’Arma dei Carabinieri e della Milizia i prigionieri che cadano nelle proprie mani e di avvertire i corpi suddetti se prigionieri di guerra si trovino nelle vicinanze.
Inoltre la cattura e la segnalazione di prigionieri di guerra deve essere portata a mia conoscenza immediatamente a mezzo telefono e in qualsiasi altro modo celere.
E’ bene avvertire la cittadinanza che le inosservanze di quest’ordine e anche il ritardo nelle esecuzioni delle medesime comporta gravi sanzioni pecuniarie da parte del Tribunale Militare Germanico. Per la cattura di ogni prigioniero verrà corrisposto un premio di lire 1. 800 oppure di 20 sterline.
Prefetto Chiaromonte

Del resto dopo l’otto settembre 1943 furono molti i prigionieri alleati fuggiti dai campi di raccolta che trovarono rifugio sul monte San Genesio. Ricorda Luigi Brambilla sindaco di Rovagnate più volte rieletto a partire dal 1962 e militante partigiano della 104a Brigata Garibaldi SAP”Gianni Citterio, in una intervista rilasciata all’Esagono:

“In quei tempi, abbiamo visto decine e decine di prigionieri di ogni nazione e colore passare nei nostri paesini della Brianza, dove la gente cercava di aiutare questi poveri uomini dando loro di che sfamarsi e vestirsi. Molti di essi riuscirono a passare il confine e parecchi furono accompagnati da noi prima che arrivassero i tedeschi e bloccassero la frontiera. Alcuni fuggiaschi furono ospitati anche nel paese di Giovenzana ad opera principalmente del parroco. “

Così con la tacita connivenza di tutti, si andò avanti per un mese, fino alla domenica 10 ottobre giorno di San Donnino martire, patrono di Giovenzana, festa molto sentita e partecipata dalla popolazione, malgrado le privazioni e i disagi della realtà contingente.
Anche i militari alleati, ormai in abiti civili, scesero nel piccolo centro del paese, per partecipare alla gioia e condividere le speranze di pace della popolazione. Ma purtroppo la spiata di qualcuno segnalò ai tedeschi la presenza degli ex prigionieri alleati.
Il giorno seguente, 11 ottobre 1943, alle 4 del mattino, il piccolo paese venne circondato da truppe e autoblindo delle S.S. tedesche e della Guardia Nazionale Repubblicana. “Nessuno si muova!” è il perentorio e minaccioso ordine.
Un drappello di soldati picchiò con il calcio del fucile alla porta della casa parrocchiale. Accorse il parroco: “Aprite siete in arresto”. E lo strapparono via bruscamente e brutalmente. Sopraggiunse anche il fratello del parroco, padre Ferruccio Corti del P.I.M.E. , già missionario in Cina e ora ospite del fratello in Giovenzana. Cercò di difendere il parroco, ma, anche lui venne brutalmente schiaffeggiato e strattonato via per la barba.
Un altro drappello di S.S. e di G.N.R., circondò la casa dove erano ospitati i cinque militari ex prigionieri e prima che riuscissero a fuggire li arrestò, davanti a tutta la popolazione sgomenta e terrorizzata dal timore di una eventuale rappresaglia dei nazi-fascisti.
I soldati salirono quindi alla baita di Pessina dove trovarono i due Spagnoli Josè Martinez e Andrea Sanchez. Questi tentarono di fuggire ma furono catturati e fucilati immediatamente davanti alla baita, un’altra versione dice che i due furono uccisi mentre tentavano la fuga.
I due erano degli antifranchisti che si erano arruolati nell’ottava armata inglese per continuare a combattere il fascismo e il nazismo, fatti prigionieri dagli Italiani erano stati internati nel campo di Grumello, dal quale erano fuggiti l’otto settembre.
Le loro salme riposano nel piccolo cimitero di Giovenzana. Il paese fu minacciato di essere raso al suolo per aver prestato aiuto a militari fuggiti dai campi di prigionia. Don Riccardo Corti supplicò il comandante tedesco di non dare corso alla minacciata distruzione, assumendosi la responsabilità di aver dato asilo agli ex prigionieri.
Giovenzana venne risparmiata, ma il coraggioso parroco fu processato e con lui il fratello, condannato ai lavori forzati in Germania (Mauthausen), venne liberato diciassette mesi dopo per l’intervento personale del Cardinale Idelfonso Schuster, Arcivescovo di Milano, presso il Comando Supremo Germanico. Don Riccardo Corti aveva circa settant’anni, era malato, e in prigione fu adibito all’ufficio di garzone calzolaio.

 

Arresto e deportazione di Aldo Carpi

Quando venne arrestato dal drappello della milizia fascista, la mattina del 23/1/1944, Aldo Carpi aveva 58 anni ed era titolare della cattedra di pittura all’Accademia di Belle Arti di Brera. L’arresto ebbe luogo a Mondonico, vicino ad Olgiate, dove Carpi era sfollato da Milano con la famiglia. A denunciarlo per attività antifascista, sembra sia stato, per circostanze non del tutto chiare, un mediocre scultore, anche lui sfollato a Mondonico e domiciliato in una abitazione attigua alla casa Riva, dove si erano stabiliti i Carpi.
Nel diario delle sue disavventure, Carpinon farà mai esplicitamente il nome del suo delatore, apostrofandolo ironicamente come lo scultore boia, il ridicolo vile mago”, sottolineando alcune sue velleità di astrologo. Anche le modalità del suo arresto furono abbastanza singolari, non soltanto perché rivelarono la dignità e la forte tempra morale del Carpi stesso, ma anche perché sembrava un arresto annunciato e che molti fossero a conoscenza, quella mattina del gennaio ’44, dell’intenzione dei fascisti di voler procedere al fermo dell’artista. Il Carpi si trovava nel suo studio, che era lontano dalla sua abitazione, all’altra estremità di Mondonico, dalle sue finestre poteva vedere la salita che porta al paese, infatti aveva visto arrivare i fascisti che si dirigevano verso casa sua anziché al suo studio. Inoltre il giardiniere l’aveva avvisato del pericolo, tuttavia, pensando che a casa ci fossero i figli, anche loro attivi antifascisti, pensò di ritornare alla sua abitazione per evitare loro l’arresto, premura inutile visto che i figli, già avvertiti dai contadini, si erano posti in salvo. Al momento dell’arresto in casa c’erano la figlia Giovanna, il figlio minore Piero di tredici anni e due partigiani di Lodi: l’operaio Egidio Lovati e Gino Molina. Lovati fu arrestato e deportato a Mauthausen, ma riuscì a salvarsi, Molina fu lasciato libero perché non c’era più posto nelle automobili dei fascisti, morirà durante un’azione di guerriglia, qualche mese dopo in via Solferino a Milano, ucciso dai fascisti. Dei figli di Carpi, Fiorenzo e Cionifurono costretti a rifugiarsi in Svizzera, Paolo che aveva diciassette anni, fu catturato nel luglio del ’44 e deportato prima nel campo di sterminio di Flossemburg e poi in quello di Gross-Rosen, da cui non fece più ritorno, Pininvenne arrestato nel febbraio del 1945 e dopo, un mese a San Vittore, fu scarcerato in seguito ad uno scambio di prigionieri. Il Diario di Gusen, da cui sono tratte le notizie sopra riportate, comincia a partire dal Natale del 1944 e si conclude con l’arrivo degli alleati e la permanenza “coatta” a Regenburg, dopo la liberazione. Carpi poté fare ritorno a casa solo tre mesi dopo l’insurrezione. Ci sembra opportuno riproporre le varie fasi dell’arresto di Carpi, in quella concitata mattina del 23 gennaio 1944, cosi come ci sono state narrate e consegnate dalla viva voce del suo sfortunato protagonista, nelle pagine iniziali del diario. “Io, in un certo modo, ero stato preavvisato dell’arresto, non mi è arrivato inaspettato. Sapevo già che ero stato denunciato da qualcheduno, mi avevano fatto anche dei nomi, tre nomi specialmente, e io avrei avuto la possibilità di espatriare; ma con tutta la barca dei ragazzi non saprei come avrei potuto farlo. Perché far espatriare un uomo è un conto, ma una specie di camion è un po’ difficile, no? Mi ricordo che quella domenica a Mondonico, era il 3 gennaio 1944, quando sono uscito di casa per andare in studio, ho trovato che i cani che avevo allora erano spariti, tutti e due, e mi sono domandato il perché di questo fatto; e così sono andato in studio e ho cominciato a ragionare tra me. Quando ho visto passare le automobili dei fascisti sulla salita che porta al paese, ho pensato che fossero dirette al mio studio e mi son detto:”sono loro”. Difatti erano loro; ma hanno tirato diritto verso casa mia. Da me in studio è venuto invece l’ortolano per avvisarmi:”stia attento! Ci sono là le guardie, i fascisti coi mitra”, e allora io, naturalmente, essendo il capo famiglia sono andato a casa. Il bello è che erano venuti in tanti, c’era tutta la casa circondata ed erano armati di mitra e rivoltelle come se avessero dovuto arrestare il brigante Gasparone. Avevano perquisito tutta la casa cercando armi che non c’erano. Ricordo che quasi non volevano lasciarmi entrare. E io ho detto : Scusate tanto. Son venuto qui da solo mentre avrei potuto tagliare la corda ; ero lontano abbastanza dalla casa,no? Lasciatemi almeno salutare la famiglia. ” E mi han lasciato salutare la Maria e io le ho consegnato il mio portafoglio dove non c’era neanche un centesimo. Poi ho fatto il segno della Croce con la Maria e mi hanno portato via. Carpi e Lovati vennero condotti dapprima a Brivio “in un carcerino che sarà stato di due metri e mezzo per due, poi nel carcere di San Vittore a Milano, infine a Gusen. Campo di lavoro e sterminio situato a 7 chilometri da Mauthausen, dal quale uscirà il 5 maggio 1945 all’arrivo delle truppe alleate.

Notte di sangue a Rovagnate

Guidati dal Comandante Sass, (Pietro Sasinini) circa 120 partigiani della Brigata Puecher, nel pomeriggio del 26 aprile accorsero a dare man forte ai colleghi di Merate, nel tentativo di costringere alla resa il presidio Tedesco, composto da più di 500 S.S. Ostturken originari del Turkestan, sparsi fra Merate, Calolzio e Gandino. Il comandante del presidio S.S., Tenente Generale Harun el Raschid Bey, nonostante la presenza dei patrioti della Puecher, si rifiutava di cedere le armi, affermando che si sarebbe arreso solo ad un suo pari grado alleato. Il Comandante della Puecher pensò che fosse inutile continuare a trattare e che si dovessero preparare ad affrontare un eventuale conflitto a fuoco. Decise infine che sarebbero tornati a Bulciaghetto, sede del distaccamento, per valutare con calma la situazione e scegliere quale soluzione adottare. Nonostante le ripetute segnalazioni d’avvistamenti di colonne fasciste nella zona, i due camion con i partigiani partirono alle ore 20 circa da Merate in direzione di Como, quando la sera era ormai calata. All’altezza di Rovagnate, i fascisti, della Brigata Nera Tagliamento, al comando del colonnello Petti, nascosti ai due lati della strada e favoriti dall’oscurità della notte e dai folti boschi, tesero loro un’imboscata, attaccandoli a colpi di raffiche di mitra e mitragliatrici. I partigiani reagirono immediatamente ma l’elemento sorpresa fu determinante, sopraffatti dalle soverchianti forze fasciste il gruppo lasciò sul terreno 19 morti 4 feriti e 10 prigionieri.
Feriti e prigionieri furono usati poi come ostaggi nel tentativo di superare i posti di blocco che i partigiani della Brigata”Puecher” avevano organizzato sulla strada per Como, nella zona di Bulciaghetto, dove si avranno altri scontri con vari morti fra i partigiani. Dopo varie e drammatiche peripezie, i prigionieri riusciranno a riacquistare la libertà, nei pressi di Como, al momento dello scioglimento della colonna e relativa fuga dei fascisti.
All’entrata di Rovagnate una stele ricorda i caduti morti per la libertà:

  • Bonacina Luigi – anni 22 di Tabiago
  • De Capitani Arturo – anni 24 Monticello Brianza
  • Filigura Giuseppe – anni 27 Nibionno
  • Giudici Felice – anni 26 Nibionno
  • Locatelli Carlo – anni 37 Barzanò
  • Motta Francesco – anni 19 Barzanò
  • Riva Emilio – anni 33 Nibionno
  • Riva Luigi – anni 25 Nibionno
  • Sirtori Alberto – anni 22 Nibionno
  • Spinelli Mario – anni 31 Nibionno
  • Fumagalli Carlo – anni 20 Bulciago
  • Bellotti Giovanni – anni 39 Rovagnate
  • Brusadelli Marco – anni 23 Rovagnate
  • Conti Mario – anni 29 Molteno
  • Crippa Fiorenzo – anni 19 Cremella
  • Fumagalli Ugo – anni 18 Cremella
  • Magni Ezio – anni 23 Barzago
  • Rigamonti Enrico – anni 19 Cremella
  • Sala Ugo – anni 23 Cremella
  • Sironi Alessandro – anni 19 Cremella
  • Valsecchi Luigi – anni 24 Barzago
  • Martines (Martinez) Jose – Spagna
  • Soldato ignoto – Russia
  • Sance (Sanchez) Andrea – Spagna

Ultimo rastrellamento fascista del San Genesio

Il comando del corpo ausiliario squadre d’azioni CC NN Brigata nera Cesare Rodini di Como, comando II° battaglione, in data 8 marzo 1945 protocollo E. 676/8 diramava un comunicato, indirizzato all’ufficio informazioni del comando della Brigata Nera, e a tutte le formazioni fasciste e autorità della provincia di Como, che nella zona del San Genesio era stata effettuata una brillante azione di rastrellamento per individuare e catturare eventuali sbandati presenti sul monte e nello stesso tempo impedire che nuove formazioni partigiane potessero organizzarsi.

Il comandante della brigata nera di Como Paolo Porta chiudeva il rapporto elogiando il comandante del II° battaglione capitano Butti Plinio che aveva brillantemente condotto l’azione di pulizia del complesso montuoso, e sul favore che questa azione aveva creato nelle popolazioni dei paesi sparsi sulla collina, per la forte e determinata presenza dimostrata dalla Repubblica Sociale nell’applicare con ferrea fermezza le leggi.

La cronaca dell’azione tratta dal rapporto del capitano Butti Plinio:

“Come da comunicazione a codesto comando e a codesto ufficio nelle prime ore di stamane ha avuto luogo l’annunciato rastrellamento della zona di San Genesio alla ricerca di sbandati e disertori dalle forze fasciste.
A detto rastrellamento hanno partecipato 94 squadristi così ripartiti fra i vari presidi presenti nella zona circostante il monte:

Presidio di Erba n° 22
Presidio di Lecco n° 29
Presidio di Merate n° 31
Presidio di Oggiono n° 6
Presidio di Olginate n° 6
Le operazioni si sono svolte in conformità all’ordine operativo precedentemente impartito ai vari comandi di presidio.
Prima colonna formata dal presidio di Erba e di Oggiono partita alle ore 2 da Oggiono, ha iniziato le operazioni di rastrellamento a Ravellino alle ore 4: successivamente ha rastrellato gli abitati di Nava e Giovanzana raggiungendo San Genesio alle ore 10: nessun fatto di particolare rilievo da segnalare.
Seconda colonna ha agito nel paese di Dozio e di Biglio staccando un nucleo verso la località La Rocca: il grosso ha raggiunto San Genesio alle ore 6,30, mentre il nucleo inviato alla Rocca ha raggiunto il San Genesio alle ore 10: quest’ultimo ha provveduto al fermo dei seguenti individui: Goldaniga Luigi e Buonassanta Salvatore entrambi di Milano: i medesimi sono stati trovati in una casa isolata e non hanno saputo giustificare le ragioni della loro presenza: sono stati trattenuti presso il Comando della 5* compagnia per ulteriori indagini.
La terza colonna ha agito su tre nuclei:
Il primo nucleo partito da Mondonico alle ore 3,30 ha puntato direttamente sul San Genesio dopo aver rastrellato gli abitati di Campione e di Campsirago: il San Genesio è stato raggiunto alle 4,30: ha circondato il convento e ha provveduto all’immediata perquisizione, previa presenza del custode del luogo.
Il secondo nucleo per, Porchera, Monastirolo, Cascina Chignolo, San Genesio ha raggiunto la quota assieme al primo nucleo: in questo nucleo non venne rimarcato nessun fatto di particolare rilievo.
Il terzo nucleo partito da Mondonico alle ore 3,30 attraverso, Paù, Cascina Ferriera, Cagliano, Madonna del Sasso ha raggiunto San Genesio alle 5,50: ha provveduto al fermo dei seguenti individui: alpino Colombo Giuseppe da Milano, appartenente alla Divisione Monte Rosa in possesso di documenti alterati, quindi presumibilmente disertore: Scaccabarozzi Isidoro presunto disertore dell’G.N.R., Pozzoni Enrico classe ? giovane sprovvisto di documenti.
I tre sopranominati sono stati passati al presidio di Erba per l’inoltro al Comando di Brigata. Da informazioni assunte durante l’operazione ci consta che n° 7 partigiani che hanno soggiornato in Porchera si sono allontanati da detta località il giorno I° marzo.
E’ inoltre confermato che il convento di San Genesio ha a suo tempo servito quale rifugio di sbandati. In ogni modo l’azione è stata compiuta con la massima scrupolosità ed è presumibile che la zona è stata ben rastrellata e che non vi sia alcuna presenza di formazioni partigiane o di sbandati.
Devo segnalare a codesto comando il buon comportamento di tutti i reparti. Dagli anziani ai giovani del centro addestramento tutti hanno palesato uno zelo ed una diligenza non indifferente. ”
Il Comandante il Battaglione Plinio Butti